di Mario Palmaro
Qual è la verità sulle nuove Linee Guida in materia di fecondazione artificiale? I radicali strillano sostenendo che si tratta di un ultimo colpo di coda del Governo Berlusconi, e contestano alcune restrizioni contenute nel documento. Dal mondo cattolico si risponde difendendo l’operato dell’ex sottosegretario Eugenia Roccella, la quale avrebbe semplicemente rispettato i canoni imposti dalla legge 40 del 2004.
Ragioniamo. Un giudizio obiettivo sulle Linee Guida deve mettere insieme, con onestà, luci ed ombre. Luci ed ombre che sono il riflesso della stessa legge sulla fecondazione artificiale, frutto di un compromesso politico e dunque ben lontana dall’essere una legge giusta.
Cominciamo dalle luci. Sul piano giuridico, il Governo uscente aveva tutto il diritto di emanare il documento contestato. Nel merito, le linee guida confermano il divieto della diagnosi reimpianto; e inoltre, ribadiscono che l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale non è consentito alle coppie fertili, anche se queste sono portatrici di malattie genetiche. I fautori della provetta libera avrebbero voluto che le Linee Guida si allineassero ad alcune decisioni dei giudici che in questi anni hanno invece autorizzato le coppie a derogare da tali divieti. Così non è stato, e la scelta è legittima, poiché – come spiega l’ordinario di Diritto Costituzionale Filippo Vari – in Italia una sentenza non può cambiare le leggi vigenti, ma produce i suoi effetti limitatamente ai casi specifici.
Verità che, fra l’altro, alcuni cattolici tendono a dimenticare quando sostengono che, dopo le sentenze sul caso Englaro, la legge sarebbe stata modificata, rendendo necessaria una nuova normativa sulle Dat. Delle due l’una: o le sentenze cambiano le leggi, e allora le Linee Guida avrebbero dovuto adeguarsi alle sentenze “libertarie” sulla provetta; o le sentenze non cambiano le leggi, e allora la legge sulle Dat non sarebbe più necessaria.
Ma le Linee Guida portano con sé anche delle ombre. Innanzitutto, la natura giuridica di questo strumento normativo è ambigua: si tratta di un documento amministrativo, certamente sottoposto al primato della legge ordinaria cui si riferisce; tuttavia, proprio per questo carattere amministrativo, i giudici potrebbero in futuro ignorarle, e ritenere di applicare alla legge 40 una differente interpretazione.
Ma, soprattutto, le Linee Guida 2011 evidenziano un vistoso arretramento rispetto alla linea difensiva della vita umana concepita. Un arretramento che è stato poco o nulla evidenziato dalla stampa cattolica. Mi riferisco, in particolare, al fondamentale divieto di trasferire più di tre embrioni: divieto che è stato cassato dalla Corte costituzionale con la sentenza 151 del 2009. E’ ovvio che le Linee Guida siano state costrette a recepire un tale autorevole orientamento; ma è altrettanto ovvio che questo fatto debba essere detto pubblicamente, sottolineandone la negatività. Quella sentenza della Corte, fra l’altro, si poggia purtroppo su un ragionamento logico inappuntabile: e cioè che la legge 40, nel momento in cui legalizza il trasferimento multiplo di embrioni – che implica la morte programmata di almeno alcuni di loro – dimostra di non considerare la vita del concepito un bene meritevole di tutela incondizionata. Dunque, dicono i giudici della Corte, il legislatore deve ammettere anche un trasferimento superiore a tre embrioni, se questo risponde all’interesse al figlio della coppia e alla salute della donna. E l’argomento della Corte diventa ancora più forte se si aggiunge che tutte le tecniche di fecondazione extracorporea presuppongono l’accettazione programmata della morte della maggior parte degli embrioni prodotti in provetta.
Non solo. Le Linee Guida del 2011 non stabiliscono più l’obbligo di trasferire gli embrioni soprannumerari nella Biobanca di Milano. A oggi gli embrioni crioconservati, abbandonati e non, risultano ufficialmente essere alcune migliaia: il che è molto istruttivo, se si pensa che la legge 40 venne presentata come contraria alla produzione di embrioni in sovrannumero. Purtroppo, una volta ammessa l’idea che l’accesso alla provetta sia un diritto, seppure limitatamente al possesso di alcuni requisiti, diventa impossibile sfuggire a quel piano inclinato che porta, rapidamente, dal male minore al male maggiore.
Da La Bussola Quotidiana, 18 novembre 2011