di Riccardo Cascioli
04-11-2011
Un importante successo è stato ottenuto ieri alla Corte Europea dei Diritti Umani, dove la Grand Chamber ha emesso il suo giudizio definitivo sul caso S.H. e altri contro l’Austria, riguardante il divieto di fecondazione artificiale eterologa vigente in quel paese. I giudici europei, rovesciando la sentenza emessa il 1° aprile 2010 dalla Prima sezione della stessa Corte, hanno sostanzialmente detto che il divieto di fecondazione artificiale eterologa non contrasta con l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani, che sancisce il diritto al rispetto per la vita privata e familiare.
Due coppie che, per diversi motivi, non potevano avere figli si erano rivolte al tribunale europeo per farsi riconoscere il diritto ad avere un figlio che la legislazione austriaca violerebbe con il divieto di ricorrere a sperma e ovuli di donatori per consentire la fecondazione. E’ soprattutto nel confronto con la prima sentenza che si apprezza l’importanza di questa decisione. I giudici della Prima sezione avevano infatti dato ragione alle due coppie sancendo di fatto “il diritto ad avere un figlio” e l’assoluta indifferenza morale tra genitori biologici e non. In questo modo veniva cancellato il modello sociale di famiglia biologica e negata qualsiasi “considerazione morale” nell’uso delle biotecnologie.
La sentenza emessa ieri ribalta invece il giudizio: quindi, il riferimento alla “procreazione naturale” e alla “famiglia naturale” (solo un padre e una madre) come modelli di riferimento anche per la procreazione artificiale giustificano il divieto di donazione di ovuli e sperma. Inoltre i legislatori nazionali, nell’affrontare il tema della Fecondazione in vitro, possono legittimamente tenere conto delle questioni etiche che la tale procedimento solleva.
In altre parole la Corte Europea ha salvato in questo caso il concetto di famiglia e la sovranità dei singoli Stati in materie eticamente sensibili, cosa che per come si erano messe le cose dopo la prima sentenza era tutt’altro che scontata.
A questo proposito si deve notare come questa sia la seconda volta in pochi mesi che la Grand Chamber rovesci la sentenza di primo grado (la prima era stata la “sentenza del Crocifisso”), una novità positiva che indica come la Corte si stia indirizzando verso una tendenza a evitare di imporre visioni ideologiche ai singoli stati su temi eticamente sensibili.
Inoltre è la seconda volta in pochi giorni (la prima riguardava l’uso di embrioni per la ricerca) che la Corte interviene per negare una visione meramente utilitaristica in bioetica.
Ma così come la sentenza sulla ricerca sugli embrioni, anche quella di ieri presenta dei lati negativi. Non solo la fecondazione artificiale in sé non viene messa in discussione, ma i giudici ritengono che l’articolo 8 della Convenzione, seppure non obblighi gli stati a consentire la fecondazione eterologa, allo stesso modo tutela però il diritto a ricorrervi. La sentenza parla espressamente di un “diritto della coppia a concepire un figlio e a fare ricorso alla procreazione medicalmente assistita” protetto dal suddetto articolo. Concezione giustamente contestata anche dall’Italia – che insieme alla Germania si è schierata in questo processo a sostegno dell’Austria – secondo cui esiste soltanto un “diritto a cercare di concepire un figlio”. Se si portasse alle estreme conseguenze la posizione dei giudici di Strasburgo, ci si troverebbe infatti nella situazione paradossale per cui lo stato si troverebbe a dover fornire i bambini desiderati. Un’evidente follia.
Inoltre, pur giudicando la posizione dell’Austria compatibile con la Convenzione dei diritti umani, la Corte invita il legislatore austriaco a tenere conto dei rapidi cambiamenti della scienza e della cultura in questa materia, adeguando la legislazione stessa: un omaggio al relativismo imperante, che si deve respingere con forza.